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INTRODUZIONE ALLA MONOGRAFIA

Germano Beringheli
1988

L’interesse di Renato Carnevale per un’arte della totale visualità strutturata o dell’integrazione plastica cinevisuale risale ai primi anni ‘60 e nasce dall’esigenza di superamento del linguaggio scultoreo tradizionale nel momento in cui la rilettura dei principi del polimaterismo (proposti nel ‘35 da Prampolini in chiave astratta, sulla scia delle esperienze iniziate dai cubisti e dai futuristi) gli fa percepire che il problema esistenziale della scultura contemporanea consiste non tanto nel rinnovamento più o meno multimediale della sua oggettualità bensì nella ine​lu​ttuabile necessità di ampliamento della sua immagine nello spazio plastico.

Le esperienze mutuate dalla tradizione – inerenti, nel caso di questo nostro artista, il ritratto e la ceramica in un esercizio congeniale al concetto di realismo figurativo, introspettivo – gli erano servite nell’immediato dopoguerra, per rifiutare la politicità di una ideologia retorica che si proponeva come elemento di intrinseca centralità del valore assoluto dell’arte e per mettere in discussione tutti quegli elementi concettuali e strutturali che stavano trasformando in metodologie tecniche ogni risvolto estetico, procedimento “poetico” del fare.

Penso che vada sottolineata, a questo punto, la presa di posizione di Carnevale nei confronti della progressività dell’arte, il suo atteggiamento di riesame dei fatti declinano con moralità comportamentale oltre i limiti dell’utopia e nella consapevolezza che la limitatezza dell’arte andava cercando, al momento, i propri riscontri nella realtà (“l’uomo”, scriveva Consagra nel ‘52, “è nello spazio, la scultura è nello spazio”) scoprendo nel contempo la frontalità antinomica fra l’autonomia delle forme e le necessità convenzionali della rappresentazione. Di fatto sarà poi in quegli “Appunti e note per Frank Popper” redatti da Carnevale nell’84 per comunicare al critico tedesco i dati peculiari e chiarificatori d’una ricerca ultraventennale affinchè si evitasse, nell’interpretazione del suo lavoro, ogni lettura di marca purovisibilistica – che si avvertirà alta la moralità di un fare pure impegnato nella continuazione di esperienze utili all’uomo, per il suo esercizio esistenziale.
In quella circostanza Carnevale definisce concettualmente i luoghi temporali e spaziali, propri e specifici della sua ricerca, precisandone gli aspetti psicologico-soggettivi e quelli oggettivi, materializzati nella rappresentazione; le distinzioni sono molto chiare e coinvolgono tanto i rapporti linguistici della comunicazione visiva come i momenti di effetto psicosensoriale attivi in determinate fasi dell’osservazione contemplativa.

Gli stessi problemi arte-scienza, il trapianto empirico di quesiti e metodi risolutivi tratti dalla topologia, dalla cibernetica, dalla morfologia geodetica ecc., sono affrontati nel testo affinché venga evitata alla comprensione dell’opera “Cronotopica” ogni confusione contenutistica, psicologica, sensitiva o schematica, confusione che negli anni ‘60 stava sconvolgendo, per altro, i risultati eterocliti di molta ricerca impropriamente definiti di integrazione visuale.
Sull’argomento perseguito dalla giusta interpretazione, che sta, evidentemente come peculiarità effettuale della giusta percezione, si tornerà necessariamente in questa annotazione e specificamente allorché si dovrà constatare nel lavoro di Carnevale un affondo parascientifico nella Iridologia suscitato da alcune osservazioni, “aberranti” rilevate nel corso d’una mostra personale a Pisa e poi trasferite in successive ricerche di visualità cromatica e di percezione graduale dell’ambiguità visiva.

Sulla scultura Cronotopica – che inaugurò, nel gennaio del 1970, con la mostra personale alla Galleria Apollinaire di Milano, – i primi risultati di elevata espressività perseguiti dall’Artista per lungo tempo, sono raccolti si spera in questo libro molti interventi, utili e, si spera, sufficienti a chiarire, con la loro sostanza
dialettica e filologica, il senso di un immaginario volto drasticamente al superamento dei confini ancora ortodossi assegnati all’indipendenza di ognuna delle arti plastiche tradizionali. Così, attraverso i vari contributi, si danno, successivi e progressivi, i modi di un accoglimento critico-estetico d’una ricerca che ha collaborato, a livello internazionale, ai maggiori risultati di sviluppo di quella che è stata una delle tendenze contemporanee più vive negli ambiti dell’estetica concreta o astratto-costruttiva e, che ugualmente, ha collaborato a determinare quella coscienza del moderno per cui il procedimento sperimentale della ricerca aperta si istituiva come valore sostanziale della creazione artistica.

La situazione della “Ghestalt” , dell’organizzazione delle forme misurate su dottrine psicologiche d’ordine positivista, trova in generale, negli anni ‘50, un notevole interesse teorico ed offre agli artisti la possibilità di riflettere su alcuni risultati dimenticati negli archivi storici della sperimentalità classica. Riconsiderare i punti di forza raggiunti da Tatlin con i “controrilievi” del ‘14 o da Gabo, con la “Costruzione Spaziale Cinetica” del ‘20 o da Duchamp con la macchina ottica di vetro o, ancora, da Mokoly-Nagy con il modulatore spaziale di luce del ‘22, è per molti, attratti dall’Utopia stupenda dell’Arte Totale, l’occasione opportuna per giocare le proprie carte al tavolo della creatività. Al momento, pressoché in tutto il mondo i problemi di un’artisticità di marca ottico-spaziale vengono affrontati con attività singolari o di gruppo; emergono così ricerche e personaggi (“Motus” in Francia e l’ “Equipo 57” a Cordoba, il “Gruppo T” in Italia, l’internazionale “Son et Lumière” e il “Gruppo di ricerca Arte Visuale” ancora a Parigi ecc. e Morellet, Duarte, Rossi, Vasarely, Agam, Alviani, De Marco, Vardanenga, Yvaral, Soto, Mortesen, ecc.) davvero fondamentali, con il loro prestigioso avvicendamento di idee e di proposizioni, allo svolgimento d’una tematica che agisce sulle forme e sulla loro qualificazione in modo inedito, tanto complesso quanto approfondito.

Si inserisce in quest’area la “Scultura Cronotopica” di Renato Carnevale che trasferisce alcune intuizioni maturate ai margini dell’esperienza informale nell’ipotesi di una ideazione plastica coinvolta dalla trasformabilità dinamica della struttura visiva e della instabilità ottica. Ingredienti linguistici fondamentali per le prime prove sono la luce irradiata in movimento e alcune forme plastiche la cui materialità è tuttavia ancora legata alla visione unidimensionale e prospettica da accogliere in segni e dimensioni simboliche. Non per nulla i primi “ferri” da animare, Carnevale li recupera nell’iconografia tradizionale: si tratta di grossi chiodi la cui immagine è inevitabilmente collegata alla “crecefissione” e le cui ombre, suscitate dinamicamente, conservano, forse al di là delle intenzioni espressive, un tratto di esistenza ancora visionaria e simbolica. Carnevale si accorge presto dell’ambiguità, tanto più che non è la declinazione rappresentativa a interessarlo ma semmai (e con un notevole anticipo su quanto avverrà successivamente) le graduali possibilità comportamentistiche, tanto dell’immagine come dello sguardo dell’osservatore.
La mostra alla Galleria Apollinaire di Milano segna pertanto il primo atto d’una presa di coscienza operativa matura e di notevole incidenza e le opere esposte, oggetti che Carnevale definisce in attività cineplastica, possono essere considerate di lodevolissima autonomia semantica.
Qualità questa che sarà sottolineata, subito dopo, in Belgio in occasione di una collettiva di artisti liguri ad Anversa e che varrà all’artista la stima di studiosi e colleghi per i quali i risultati raggiunti contribuiscono a sviluppare ulteriori mete sulle situazioni ormai limite dei problemi di visualità totale e si sintesi delle arti.
Carnevale comincia ad essere oggetto di considerazione e di amicizia in Belgio e in Francia e lì il suo lavoro viene accolto con entusiasmo da operatori che avvertono come, nella superficie spaziale e nel contesto temporale, la sintesi plastica muti con la suggestione di puntuazioni rotatorie psico-ottiche. L’espansione visiva e la tensione cromatica proprie delle opere di Carnevale (che nel frattempo ha trovato nei lavori del belga Pol Bury conferma della giustezza delle proprie intuizioni anche a proposito delle possibilità di trasformazione in senso plastico della dimensione temporale con mezzi elettromeccanici) è molto considerata da operatori, artisti come Asis, Garcia Rossi, Le Parc, Morellet, Yvaral, o critici come Xurriguera, che lo invitano a far parte di quel gruppo di artisti che assicura annualmente la propria alta presenza alle grandi internazionali parigine di Réalités Nouvelles e dei Salons des Grands et Jeunes d’Aujourd’hui. Da quel momento l’attività di Carnevale, che pure in Italia ha sì riconoscimenti, ma parziali e marginali, assume una disponibilità internazionale e i suoi lavori una dislocazione per quei circuiti europei (ma c’è anche, nell’ aprile dell’ ‘82, una prima apparizione newyorkese) che segnano il significativo tragitto spettacolare di una delle tendenze moderne maggiormente impegnate alla ricerca della più completa sintesi interdisciplinare: pittura, scultura, architettura, elettronica convergono con le specifiche intrinseche possibilità formali e comunicative a qualificare la progettazione di uno “spazio” , di un mondo capace di rigettare la deflagrazione primaria dell’istinto e della passionalità incontrollata.

L’Utopia sembra perciò riemergere là dove gli anni ‘10 – ‘20 l’avevano lasciata a noi, col senno di poi, alla luce anche degli esiti post-concettuali e post-moderni, non possiamo proprio mettere fra parentesi quel “miracolo” di significazioni visive che gli anni ‘60 – ‘70 ci ha permesso di individuare come nodali. Del resto lo stesso lavoro di Carnevale, nei suoi sviluppi qui documentati, aveva intravisto il varco oltre cui procedere in una fase ulteriore; una traccia, una testimonianza di quello che avremmo potuto constatare un giorno quale prodotto sviluppato dal suo approccio creativo, dalla articolazione razionalmente conseguente dei suoi interessi per la materia dei contenuti e per quella dell’espressione, sta nelle “osservazioni” sulla complementarietà dei colori successivi alla personale pisana nel ‘77. Le annotazioni di Carnevale – esposte nell’ottobre dell’ ‘87 con un intervento dell’artista al Congresso della Accademia Europea delle Scienze e delle Arti e delle Lettere di Parigi presso la Accademia dei Lincei a Roma – hanno messo in gioco, con i molti aspetti estetici, la stessa natura scientifica dell’ottica sottintendendo una complessità problematica notevole per spessore culturale. È la stessa fisiologia della percezione a essere chiamata in causa e si tratta quindi di capire di quali emergenze e di quali problemi sia in fondo coinvolta l’operatività artistica quando i suoi procedimenti formali giungono all’intuizione di possibilità strutturali ed espressive nuove.

I testi, stesi per la circostanza, anche dallo stesso Carnevale e quelli degli studiosi e degli amici che l’hanno affiancato sostenendone le convinzioni sono e restano qui raccolti la miglior testimonianza della presenza di una identità artistica e culturale protagonista, quale è stata la sua e il cui senso di durata è confermata dalla presenza del suo lavoro all’importante Museo di Chollet (Francia).

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